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Quasi fosse sciolto l’ormeggio

Mercedes Murgia
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01 Gennaio 2004

Ricordi e prospettive di Mercede Murgia, di Macomer (Nuoro), che ritorna nella R.D.Congo dopo sei anni di servizio in Italia.

Quando giunsi per la prima volta in Congo, il Paese mi parve diverso da come l’avevo visto in fotografia: più verde, più soleggiato; una povertà più povera, sorrisi più sorrisi, una cordialità più cordiale.

Più che dai libri, appresi la lingua dalla gente stessa: non volevo lasciarmi sfuggire niente della loro vita. Frequentai per un po’ la maternità di Uvira, facendo il turno di notte due volte alla settimana. Ricordo le notti sui gradini del reparto, con il lago Tanganika in basso che cambiava progressivamente colore al giungere dell’alba fino a riempirsi di luce. Verso le quattro del mattino sentivo le mamme che si chiamavano ridendo per andare nei campi e il villaggio che cominciava a prendere vita.

Fra mamme e bimbi

Fui destinata all’ospedale e alla maternità di Kiliba. Quando vi giunsi, Teresina Andria mi portò una neonata rimasta senza mamma. Fu la prima di nove bimbi che rimasero alla maternità lungo tempo e che poi furono accolti dalla famiglia allargata. Li amai moltissimo, ma con distacco, sapendo che non avrebbero potuto rimanere. Un giorno a Uvira venne a cercarmi uno di loro che aveva ormai 14 anni, Kabainya. Gli diedi la foto di quand’era piccolo. Poi non lo vidi più.

Vicino al medico imparai a curare ogni tipo di malati. Il personale con cui lavoravo era locale e molto valido; mi sono sempre trovata bene con loro. Nei cinque anni vissuti a Kiliba , con Lina e Gemma, partecipavamo insieme ai problemi e alle gioie delle persone. Imparai ad amare la gente; andavo al mercato, nei settori, in chiesa, dappertutto.

Lavorai poi alla maternità e al dispensario di Luvungi. Data la forte affluenza di mamme gestanti e di ammalati, non ebbi più tempo per la catechesi, né per l’animazione sanitaria nei villaggi. Chiamai però da Bukavu due animatrici che formarono persone dai vari quartieri, che iniziarono poi la sensibilizzazione della popolazione sui temi della salute. C’era chi approfittava delle lunghe sedute in occasione di lutti o chi chiamava la gente nel proprio cortile.

Poco dopo però dovetti partire per Nakiliza, una parrocchia dell’interno assai vasta, ma con meno concentrazione di popolazione. Il lavoro non era più così assillante, ma c’era più batticuore, perché l’ospedale era molto lontano. La gente faceva anche 110 km. per giungere al dispensario, talvolta portando il malato o la mamma incinta su una poltroncina di vimini fissata alla bicicletta, proteggendoli dal sole e dall’acqua con l’ombrello. Nei tre anni che rimasi là mi trovai ad affrontare situazioni difficili: feci un cesareo e riuscii a risolvere tre rotture uterine. Due di queste mamme partorirono di nuovo. Una sola mamma mi morì di parto.

Andando ad Uvira con il compito di delegata delle comunità, non potei più avere un impegno fisso: di apostolato; sostituii Lucia Pulici alla maternità, aiutai Noemi per i carcerati, curai i malati di colera a Luvungi. Quando tornai la prima volta a Nakiliza, la gente suonava e danzava in chiesa e, sempre danzando per più di un’ora e mezza, mi accompagnò a casa.

Donne: coraggio e fede

Le donne congolesi sono sottomesse, ma quando possono manifestano la loro gioia e si liberano danzando e anche andando insieme nei campi. Portano il peso dei loro dispiaceri, dei bambini persi, ma accolgono sempre la vita come un dono di Dio. La maternità rappresenta la loro dignità, la possibilità di essere rispettate. La cosa più importante per loro è avere un bambino e un uomo che le protegga. La dote pagata distingue la moglie dalla concubina e dalla donna di strada. Chi non ha un matrimonio regolare e coloro il cui marito è poligamo in fondo non sono felici. Una volta chiesi ad una donna che assisteva una giovane moglie del marito come facesse a non essere gelosa. Mi rispose: “E’ meglio che andiamo d’accordo, tanto ad un certo momento ci manda via tutte e due”.

Mi ha sempre colpito la fede delle mamme cristiane. Ricordo una mamma, gravissima per una rottura uterina, che in sala operatoria prima dell’anestesia pregò: “Signore, se ho peccato contro di te, perdonami. Se è giunta la mia ora, accoglimi nella tua vita piena”. In altre mamme non cristiane sentivo invece l’angoscia di non sapere dove stavano andando; mi stringevano la mano chiedendomi: “Non lasciarmi, stai qui!” Spesso conoscevano tutte le preghiere dei cattolici, le avevano imparate andando alle veglie funebri.

Due icone mariane

Ho trascorso serenamente questi sei anni in Italia, eppure quando mi hanno detto che sarei tornata in Congo, mi sono sentita come una barca a cui viene sciolto l’ormeggio. Sono destinata alla maternità di Luvungi. Non ho progetti, desidero solo continuare a stare in mezzo alla gente, partecipando alla loro vita. Mi attirano due icone mariane: quella della Presentazione di Gesù al tempio, nella quale mi colpisce Maria, donna come le altre, che si adatta come tutti alle leggi e poi quella della Visitazione, che per me richiama l’amicizia.