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Sara, com’è andata in Thailandia?

Sara Fiamberti
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02 Aprile 2024

Da quando sono tornata alla domanda “allora com’è andata in Thailandia?” Faccio un bel respiro e rispondo: “Che domanda difficile”. Probabilmente faccio fatica a rispondere a quella domanda, a raccontare quella che è stata la Thailandia per me per un motivo: mi sembra che l’essenza della mia missione siano gesti e immagini, cristallizzati nella mia mente in questa forma, per cui mi è difficilissimo veicolare il tutto a parole.

Il 1° agosto 2023 mi trovo a Malpensa con Susy, la mia compagna di viaggio: la sua gioia e quell’entusiasmo nei suoi occhi mi hanno accompagnato per tutto il tempo passato assieme. Dopo una giornata di viaggio veniamo catapultate in un villaggio nel Nord della Thailandia, una realtà così lontana e diversa da quella in cui ho sempre vissuto che a primissimo impatto un po’ mi spaventa: ricordo il buio pesto della strada che abbiamo fatto in macchina con le missionarie per arrivare a “casetta nostra”. Era una strada stretta, non c’era una luce a segnalarla e, soprattutto, era in mezzo alla foresta, per cui tutto intorno c’era solo natura fitta. Già dalla mattina dopo però quella strada faceva meno paura, bisognava solo imparare a conoscerla e vederla con una luce nuova.

Io e Susy iniziamo a muovere i primi passi in questo mondo per noi tutto nuovo grazie a Betty, Mireille e Catarina, le Missionarie Saveriane che con tantissimo affetto ci fanno sentire, dal primo istante, come se fossimo a casa nostra.

Ecco, uno degli elementi più preziosi di questa esperienza per me: non mi sono sentita mai sola, ma sempre accompagnata. Sia in Thailandia da Susy e le Sisters (così le chiamano lì), sia prima di partire nel percorso formativo fatto con l’equipe del PIME. La prima richiesta che ci fanno le missionarie è se possiamo aiutarle nelle lezioni di inglese di alcune classi delle elementari della scuola locale. Nonostante per noi fosse la prima volta a ritrovarci “maestre d’inglese” ci buttiamo subito in quest’attività con tanto entusiasmo ed impegno. Ho vissuto così intensamente questo viaggio che i giorni trascorsi lì sono stati 30 effettivi, ma percepiti molti di più. Un po’ come l’umidità in Thailandia: 35° gradi, percepiti 40°. Lo spazio-tempo si dilatava e si restringeva: mi sembrava che il tempo volasse, ma anche di essere lì da sempre. Complici di tutto questo sono soprattutto le persone che ho incontrato lì: le Sisters, i bambini della scuola, le persone dei villaggi. Mentre ero lì alle mie amiche e alla mia famiglia mi capitava spesso di ripetere: “è come vivere in un mondo parallelo”.  E come lo si spiega ora a parole questo mondo?

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Ho incontrato disagi sociali, ma anche tanta bellezza: le stelle più luminose che io abbia mai visto, la natura più verde delle verdi montagne di casa mia, ma soprattutto le persone. I sorrisi con cui venivo accolta, sia dai più grandi che dai più piccini, erano tra i più affettuosi che io abbia mai ricevuto, ancora prima di conoscerci.

L’ultima immagine che vorrei condividere è un momento molto speciale: è la foto che ho fatto alla “nonnina” del villaggio di Paklang per farle vedere com’era venuta la tinta ai capelli che avevo appena finito di farle. Quest’anziana signora era tra le persone più povere del villaggio ed era rimasta da sola, non aveva famiglia. L’unico appuntamento fisso era quello con sister Betty il sabato pomeriggio. Nonostante la sua condizione di estremo disagio, l’unica richiesta fatta a noi è stata quella di aiutarla a tingersi i capelli bianchi: non riesco neanche a esprimere quanto ciò mi avesse stupita. Nella mia testa non aveva senso, c’era molto altro che potevamo fare per aiutarla: pulire la capanna in cui viveva, portarle da mangiare… non aveva persone che l’andassero a trovare per rendersi “presentabile”, anzi non aveva neanche uno specchio per vedersi lei! Tuttavia, questa signora mi stava chiedendo una cosa molto specifica, e solo quella: dovevo solamente ascoltarla. Ecco uno dei più grandi insegnamenti con cui sono tornata in Italia: imparare veramente a mettermi in ascolto e non avere la presunzione di pensare di sapere io cosa sia più giusto per l’altro. Il volto felice di quella “nonnina” spesso mi torna in mente.

Ho capito anche questo: “Sara, basta pochissimo”. Parole che mi sono state dette in un momento in cui, presa dalla mia solita ansia da prestazione, credevo di non essere abbastanza, di non poter dare a sufficienza, parole che ora mi sono impresse nel cuore. In effetti era proprio così: bastava esserci - ed esserci bene - per l’altro. È nelle relazioni che davo un senso a quello che stavo facendo, era nel bene che l’altro mi restitutiva… Ecco perché so che è andata bene, ma è difficile spiegarlo.