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Giorni di guerra e di speranza

Maria Ubbiali
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01 Gennaio 2004

Maria Ubbiali, tornata dalla Repubblica Democratica del Congo, dove ha svolto il servizio d’infermiera e ostetrica, ricorda alcuni tratti della vita quotidiana del popolo congolese.

Dopo sette anni di guerra quasi ininterrotta, lo scorso anno, il Paese è entrato in un periodo di transizione, che dovrebbe portare a libere elezioni, ma la pace sembra ancora lontana.

Mamme, il coraggio dell’amore

Quando nel 1986 sono arrivata nell’allora Zaire, le donne erano libere di andare nei campi e non avevano bisogno di aiuti, perché con il loro lavoro provvedevano al necessario per la famiglia. La guerra ha sconvolto la loro vita. I militari impediscono loro di raggiungere i campi situati nella zona controllata dalla fazione avversa. Molte di loro sono state violentate. Oltre all’umiliazione subita, esse erano angosciate dal pensiero di avere contratto l’AIDS, diffuso fra i soldati, e di essere abbandonate dal marito. Come équipe del Centro sanitario, cerchiamo di sensibilizzarle a fare il test HIV, anche per potere, con l’opportuna terapia, far sì che il bimbo nasca sano. Non mi è mai capitato che una donna violentata chiedesse di abortire: la vita del bambino rimane per loro un valore irrinunciabile. Tramite Caritas, varie organizzazioni assistono le donne e bambine vittime di violenza.

Gli uomini, per non essere arruolati a forza, scappano sulle montagne. Molti sono morti. E poi le fughe collettive dai villaggi, per timore di rappresaglie. Più di una volta ho visto la gente fuggire, prendendo il poco che hanno: un bambino con una gallina, un altro con l’anitra, uno con qualche pentola o la lanterna. Il papà, se c’è, porta il materasso in testa. E scappano, scappano… verso foreste più sicure, ma inospitali. In queste situazioni, molte mamme sono diventate più denutrite dei loro bimbi, a cui danno il poco cibo racimolato.

La solidarietà tra loro è una grande forza

Un giorno a Luvungi andai a visitare una famiglia, nella quale una mamma sfollata, aveva avuto un parto difficile. Vi trovai anche un’altra sfollata che aveva da poco partorito. Una donna si era spostata in un’altra casetta per lasciar loro il posto.

Le mamme in genere accettano rassegnate questa precarietà, non cessando di sperare in un avvenire migliore. Quando passa il pericolo, subito ringraziano il Signore per averle conservate in vita con i loro bambini.

Le mamme sono sempre una riserva di vita e di speranza. Come il Servo di Jahvé, con la forza di Dio, esse proteggono il lucignolo fumigante della vita del popolo (cf. Is 42,1-3), con coraggio, con sacrificio, con appassionata dedizione alla vita.

Centro nutrizionale di Luvungi

Durante la prima guerra, scoppiata nell’ottobre 1996, noi eravamo partite, ma gli infermieri del posto continuavano a curare e, visto che molti bambini erano malnutriti, cominciarono ad accoglierli per accompagnarne il recupero. Prese così inizio il Centro per i bambini malnutriti di Luvungi, spesso orfani o sfollati.
Ne sorse poi un altro, finanziato dall’Unione Europea e gestito da personale locale di una Chiesa protestante. Lavoravamo in collaborazione. Questo Centro accoglieva i bambini più gravi. Quando raggiungevano almeno il 75% del peso normale, essi venivano accolti nel nostro Centro. Ai bambini non si dava solo cibo, ma anche aiuto psicologico, grazie all’affetto delle persone che li accudivano. I più grandicelli seguivano un corso di alfabetizzazione.

Mamma Cristina, una vedova di una cinquantina d’anni, lavorava da mattina a sera al nostro Centro, prendendosi a cuore i bambini uno a uno. Quando venivano da lontano e non avevano parenti, ella li alloggiava a casa sua. La sua casetta era assai piccola. Adesso, con degli aiuti, se ne sta costruendo una più grande, per poterli meglio ospitare. Mamma Cristina non ha figli suoi, ma è una madre per tutti quei bimbi. Anche oggi il centro nutrizionale di Luvungi è in piena attività.

Giovani che resistono

I giovani sono fra le prime vittime della guerra. Molti non hanno più potuto studiare. Talora sono stati arruolati a forza o conquistati da astute promesse di denaro da parte di capi militari. Altri, recuperata un’arma, sono diventati banditi, approfittando del clima d’impunità. Altri ancora hanno raggiunto le milizie partigiane sui monti.
Altri infine lottano quotidianamente per vivere una vita normale: andare a scuola, partecipare alle attività parrocchiali, trovarsi con i loro coetanei per una partita al pallone… Cose semplici che in tempo di guerra diventano spesso una sfida.

C’è nei giovani volontà di vivere e la parrocchia è rimasta l’unico centro di vita. Alcuni mi chiedevano: “Di chi è la colpa? chi ci dà tutti i fucili?”, riferendosi ai Paesi occidentali.

La pace è urgente soprattutto per ridare speranza e togliere davanti ai loro occhi lo spettacolo quotidiano della violenza.

Missione in tempo di guerra

Mentre per un verso sperimentiamo insieme alla popolazione impotenza di fronte ai grandi mali che l’affliggono e insicurezza per la violenza sempre incombente, come missionari avvertiamo sempre di più l’importanza di restare in mezzo a loro. La gente ci guarda, diveniamo un motivo di speranza. Se rimaniamo, essi comprendono che non tutto è perduto. Nello stesso tempo, vedere che, nonostante la tribolazione, essi pongono la loro fiducia nell’aiuto del Signore che prima o poi verrà loro incontro, dà anche a noi la forza di andare avanti.

Inoltre sappiamo con certezza che molte persone pregano per noi.

Più di una volta abbiamo avuto paura. Nei momenti di pericolo, si capisce meglio la situazione della gente, continuamente esposta a violenze e saccheggi. Come comunità, ci si aiuta e ci si sostiene a vicenda.

Una volta, all’indomani di un episodio che mi aveva intimorita, mi chiamarono in piena notte dal Centro sanitario per un’urgenza. Presa da paura, per due volte risposi che non sarei andata, poi pensai: “Sono venuta per dare la vita e sto qui a letto immobilizzata dalla paura!”.

Andai, potei salvare un bambino, e da allora sono riuscita a superare i miei timori.