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Immagini rimaste dentro

Gemma D’Achille
1275
04 Ottobre 2006

Qualche mese fa, rovistando tra le fotografie, ho trovato un album con tutte le foto dei miei primi anni in Messico, nella missione di Santa Cruz.

Quelle immagini mi hanno “mosso” la mente e il cuore nei ricordi.

Tra le altre una foto in bianco e nero di Francisca in occasione del battesimo di uno dei suoi figli, dove appare come una “madonna”, con la testa coperta, viso dolce e sottomesso, passo solenne ed elegante, come di chi usa portare anfore piene d’acqua sulla testa.

Sì, il mio primo incontro con la Huasteca fu di meraviglia per la nobiltà che appariva dalla sua gente semplice, la loro profonda religiosità fatta di gesti e di silenzi.

Più avanti scoprii la loro squisita accoglienza nelle visite periodiche alle famiglie dei villaggi.

Tutto era bello per me. I catechisti, contadini abituati al lavoro sotto il duro sole tropicale, mi ascoltavano con attenzione, mentre io pretendevo insegnare loro qualche cosa di Gesù.

Mi hanno insegnato loro, invece, la vera fiducia in Dio, nonostante la loro povertà e l’incertezza del loro futuro. Mi hanno insegnato la pazienza nel suo più profondo significato di resistere, sopportare. Come il catechista Juan che non abbandonò il suo ministero nonostante il furto delle sue vacche subìto per essere cattolico; oppure i tre catechisti di Cuamecaco che ebbero il coraggio di difendere una donna contro tutto il villaggio, per testimoniare il Vangelo che essi insegnavano.

Ho imparato la vera contemplazione, quando li vedevo parlare silenziosamente con il “Totata Jesus” (statua lignea del Flagellato), o quando suonavano lungamente flauto e tamburello davanti all’immagine, senza importarsi di quello che succedeva attorno.

Questi ricordi non li ritrovo solo nelle mie antiche foto, mi sono rimaste come solchi profondi nell’anima. 

Negli anni seguenti non scattai quasi più fotografie, mi sentivo della famiglia. Mi sono dedicata come una sorella maggiore ad aiutare i bambini che avevano difficoltà a scuola, scoprendo, poi, che le loro carenze derivavano a volte da una scarsa alimentazione.

Ancora mi ricordo di Silveria, una piccolina dai grandi occhi che teneva sempre bassi. Me la portò sua madre perché non sapeva leggere. Presto mi resi conto che le sue difficoltà erano dovute allo spagnolo.

A casa sua e nella maggior parte delle famiglie, infatti, si parla solo nahuatl. Cosi, avendole presentato i primi elementi di lettura nella sua lingua, la bimba imparò rapidamente a leggere e a camminare a testa alta. Presto lasciò la “mia” scuola: come un uccellino aveva imparato a volare da sola.

Tutto il bello che ricordo non mi toglie però oggi la sofferenza di vedere come la situazione delle comunità indigene è diventata precaria. Il frutto dei campi non è pagato giustamente; i giovani e gli adolescenti emigrano nelle città in cerca di altro lavoro, a volte vergognandosi della loro cultura “india”.

Nelle comunità-villaggi rimangono sempre più spesso nonni e nipoti con tutti i problemi di sopravvivenza, mentre ci si chiede: che succederà di questa gente e del loro mondo?