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Alla prigione di Uvira (R.D.C.)

Delia Guadagnini
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13 Novembre 2017

Frequentando la Prigione centrale d’Uvira, continuo il servizio che hanno reso altre sorelle, in particolare la nostra cara Noemi. In linea di principio, c’è la cappellania della prigione, composta dall’abbé Eloi, dal sig. André, responsabile della comunità cristiana della prigione, dal sig. John e da me.

Praticamente però non ci si riunisce quasi mai, quindi ciascuno fa ciò che può quando può. La mia presenza si limita alla domenica per la messa, l’ascolto dei prigionieri, la visita ai malati nelle celle e nel reparto delle donne, che dall’anno scorso hanno la loro ala, a lato della costruzione centrale.

Grazie agli aiuti ricevuti, ogni martedì John porta ai prigionieri farina o altro cibo, come pure le medicine per i malati più gravi, perché il servizio medico non funziona più. Segue anche alcuni dossier per poter liberare qualche prigioniero.

Attualmente la prigione d’Uvira ospita 750 prigionieri, benché sia stata costruita per accoglierne 150. Non c’è spazio, né cibo sufficiente, né medicine… È un luogo di grande povertà: spesso i prigionieri sono senza visite, senza cibo, senza far nulla tutto il giorno… è duro. Eppure, per alcuni la prigione diventa un luogo di riflessione, di scoperta della fede, di riconciliazione con la propria famiglia o con la famiglia che hanno offesa.

In prigione esiste una comunità ecclesiale vivente (CEV, in swahili shirika), intitolata a “S. Paolo prigioniero”, con il suo responsabile, i lettori, i ministranti, la corale, dei consiglieri. Ogni giorno pregano il rosario, animato a turno dai prigionieri delle diverse celle.

Ogni domenica c’è la messa, celebrata da uno dei sacerdoti della parrocchia Cattedrale, perché il nostro cappellano è anche incaricato dell’Università « Nostra Signora del Tanganica » che dovrebbe aprire le sue porte quest’anno.

L’anno scorso abbiamo iniziato un corso di francese di livello elementare e uno di livello superiore, e quest’anno abbiamo aggiunto l’inglese, a livello elementare. Sono i prigionieri stessi che hanno studiato che insegnano. La Monusco, la forza ONU nella Repubblica Democratica del Congo, ci ha aiutati con del materiale scolastico, e la Sotto-divisione con dei libri.

Frequentare la prigione è per me un’esperienza forte. Cerco di vedere in ogni persona il volto di Cristo, senza chiedere che cos’ha fatto, perché è in prigione; accoglierla come un fratello, una sorella… credere e vedere in essa un figlio di Dio, che può ricominciare a vivere, che ha la sua dignità ed essere a loro disposizione per il poco che posso. La mia comunità condivide con me gioie, sofferenze e speranze.