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CARI MISSIONARI, BASTA LAMENTARSI. LA CRISI È UNA SCOSSA POSITIVA

Antonio Sanfrancesco
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18 Ottobre 2017

Al festival di Brescia si discute del futuro della missione ad gentes. La "ricetta" di padre Stefano Camerlengo, superiore della Consolata: «Ben vengano le difficoltà se ci aiutano a cambiare, prendiamo esempio dalle formiche

Non parla in ecclesialese e non ama i piagnistei. Dice che la «crisi è un’ opportunità da cogliere al volo, una grazia che può darci la scossa». Padre Stefano Camerlengo, 61 anni, nativo di Macerata, è Superiore generale dei Missionari della Consolata dal 2011. È diventato sacerdote nel 1984 in Congo dove ha lavorato come missionario per molti anni. A Brescia, al Festival della missione, si discute di quale futuro per la missione ad gentes. C’ è il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’ evangelizzazione dei popoli, mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo e Presidente della commissione Cei per l’ evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le Chiese e suor Luigina Coccia, Madre generale delle suore comboniane. Si snocciolano dati e cifre, si prende atto (e non è una novità) che l’ Europa che per secoli ha evangelizzato il mondo ora ha bisogno dei missionari africani, asiatici e latinoamericani per essere evangelizzata. Il cardinale Filoni richiama l’ essenziale: «Nella missione è cambiato molto, se non tutto ma non il centro dell’ annuncio: Gesù Cristo».

Padre Camerlengo, tono appassionato e sguardo sornione, esordisce così: «Il punto non la sopravvivenza dei nostri istituti missionari ma continuare a dare l’ acqua buona del Vangelo come diceva San Giovanni XXIII che accostò la missione della Chiesa a quella della fontana del villaggio». Benedice la crisi, padre Camerlengo: «Ben venga se ci spinge a rinnovarci e a cambiare mentalità». Paragona i missionari a San Giovanni Battista: «Quando diventerò Papa», dice con un sorriso, «scriverò un’ enciclica sul Battista che è colui che indica Gesù. Questo è il nostro compito. Anche se restiamo in tre o in quattro. In Angola abbiamo aperto una missione con tre giovani missionari alla prima esperienza. Tutti dicevano che era impossibile ma stiamo andando avanti bene». La filosofia di padre Camerlengo è quella delle formiche di cui snocciola i punti essenziali: «Quando sono in fila e metti loro un sasso o un ostacolo, le formiche cambiano direzione, tutte insieme, e vanno avanti. Non tornano indietro. La missione è più grande di noi e delle nostre difficoltà. Secondo: le formiche sono previdenti durante l’ estate pensano all’ inverno che verrà e si preparano. Noi abbiamo avuto periodi di grande sviluppo ma non abbiamo pensato cambiamenti che sarebbero arrivati e che ci hanno spiazzato. Terzo: le formiche sono laboriose, fanno tutto quello che è possibile fare. Anche i missionari devono fare lo stesso. Con gioia. Quarto: le formiche quando si mettono insieme possono demolire una montagna. Gli istituti e le congregazioni missionarie devono mettersi insieme non per calcoli di convenienza ma per spinta evangelica». Fa l’ esempio dell’ Amazzonia dove i missionari della Consolata insieme ai Comboniani hanno dato vita a una missione tra gli Indios, in villaggi sperduti, di poche persone: «In America Latina e anche in Africa la collaborazione sul campo tra i vari istituti missionari c’ è ed è normale. In Europa ancora ci scandalizziamo». Poi padre Camerlengo dice che bisogna cambiare anche la formazione: «Bisogna avere seminari interculturali, invece noi siamo ancora troppo eurocentrici. Poi un missionario prende e parte e va tra gli Indios dell’ Amazzonia o in Giappone e deve ricominciare tutto daccapo». Padre Camerlengo non le manda a dire: «La vita religiosa non deve bloccare quella missionaria. Io non posso essere considerato un cattivo religioso perché arrivo tardi alla recita dei Vespri».

Anche sulla collaborazione dei laici è chiaro: «Non dobbiamo rapportarci a loro con senso di superiorità, della serie: “io so tutto e voi niente”. Non funziona così». Finisce con una storiella: «Ci sono due fratelli, uno più grande e l’ altro più piccolo, che escono di casa per prendere l’ autobus. Il maggiore corre più veloce e riesce a salire, il piccolo no e resta a terra. Il fratello maggiore a quel punto deve scendere e aspettare il piccolo o proseguire il suo cammino? Io penso che debba scendere dall’ autobus. Questa è per le ma vita missionaria».

Preso dal sito: www.famigliacristiana.it