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Dalla paura all'incontro

Maria de Oliveira
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04 Settembre 2017

Maria de Oliveira, saveriana brasiliana, condivide la sua esperienza di due anni di servizio nella prigione di Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo.

Ho cominciato a frequentare la prigione centrale di Bukavu nel febbraio 2014.

Suor Pilar, missionaria di Nostra Signora d’Africa, che lavorava nell’equipe di preti e religiose al servizio dei prigionieri, cercava un aiuto, in particolare una presenza nel piccolo laboratorio all’interno della prigione.

Le sorelle mi incoraggiarono ad accettare, anche per dar continuità al servizio della nostra sorella Lucia Vallotto, che era da poco morta di malattia in Italia.

Esitavo perché avevo paura dei prigionieri, dei militari, dei poliziotti… ma ci andai, per vedere se potevo restare. Era per me la prima volta di entrare in una prigione. Il cortile era pieno di gente che andava e veniva. C’era perfino un piccolo mercato. Capivo cos’era veramente una prigione quando vedevo i parenti portare il cibo al loro congiunto, pagando una tassa all’ingresso, o quando vedevo le persone uscire per andare in tribunali, legate due a due e con una camicia uniforme.

Poco a poco, il mio modo di vedere le cose cambiò: vidi che i prigionieri… sono esseri umani, che i militari sono persone come tante altre, con le loro gioie e le loro preoccupazioni. Trovai fra i prigionieri delle persone capaci di prendere le difese dei più deboli. Mi tranquillizzò il fatto che, quando dal cortile centrale della prigione i prigionieri uscivano all’esterno per entrare da una porta laterale che dà sul laboratorio, non erano sotto la mia responsabilità: erano scortati dai poliziotti.

La prigione è troppo piccola per il numero dei prigionieri, che in quel momento erano circa mille e quattrocento, soprattutto uomini, alcune donne e dei minori. I prigionieri sono organizzati fra loro: dei poveri si mettono al servizio dei ricchi, preparando loro il cibo, lavando i loro vestiti, per guadagnare qualche cosa. I ricchi hanno perfino il televisore, i poveri sono ammucchiati in celle oscure, che devono raggiungere alle quattro del pomeriggio, restandovi fino all’alba. Hanno costituito delle squadre di calcio, cella per cella; dato lo spazio ridotto, giocano quattro persone per squadra.

Cominciai a collaborare con suor Pilar. Nel piccolo laboratorio, ove ci sono alcuni computer e macchine da cucire, ella insegna a chi vuole diversi lavoretti, come fabbricazione di biglietti postali, di borse e astucci, da cui i prigionieri traggono un piccolo guadagno.

Chi impara insegna agli altri, gratuitamente. Ciò che si faceva non era che una goccia d’acqua: la sala infatti non può accogliere più di quattordici persone.

Nel cortile centrale si facevano altri corsi, organizzati o incoraggiati dalla Cappellania: alfabetizzazione, francese, inglese, swahili; dei rappresentanti di un Organismo insegnavano taglio e cucito. A quanti domandavano di seguire il catecumenato per diventare cristiani o la catechesi, se erano analfabeti, chiedevamo di seguire prima il corso di alfabetizzazione.

Quando le persone passano molti anni in prigione, a volte la famiglia li dimentica; altri familiari sono troppo lontani per occuparsi di loro; certe mogli, spinte dall’ambiente, si risposano. Molti prigionieri si sentono abbandonati; quando ci vedono loro vicini, si sentono considerati come persone. Si sentono rassicurati dalla nostra presenza e si affidano spesso alle nostre preghiere.

carcerecongoLa nostra equipe era composta da suore di sette congregazioni diverse e da quattro sacerdoti. Ci dividevamo i compiti: presenza fra le donne, attività sociale, salute, catechesi, liturgia, accompagnamento dei dossier giudiziari. Nel nostro incontro mensile condividevamo il lavoro e cercavamo insieme le scelte da fare. Le autorità della prigione erano contente della nostra presenza.

 Per certi, la prigione è l’occasione di incontro col Signore Gesù. Un anziano soldato, prigioniero, aveva fatto un percorso di conversione alla fede cristiana e cinque anni fa aveva ricevuto il battesimo. Era fedele alla Messa domenicale e faceva parte del consiglio della comunità cattolica della prigione. Aveva cambiato il volto della prigione. Se c’erano liti, lo chiamavano e lui riusciva a calmare i contendenti, senza violenza.

In prigione si svolgevano diversi culti, secondo l’appartenenza religiosa dei prigionieri. Cattolici e protestanti usavano la stessa sala-cappella, i musulmani avevano una piccola sala come moschea. Come in una parrocchia, c’era la corale, con la sua divisa, gli strumenti musicali, il microfono, i chierichetti; si faceva la colletta e si davano le notizie per la settimana seguente: catechesi, prove di canto… Ogni sabato e anche lungo la settimana, il Cappellano andava alla prigione per la catechesi e le confessioni, come pure per accompagnare i fascicoli giudiziari.

Era per me una gioia vedere le persone uscire di prigione, o perché arrivate alla fine della loro pena o perché riconosciute innocenti; come pure vedere le persone farsi carico le une delle altre.

E fu una gioia aver superato le mie paure e avvicinato queste persone. Basta a volte poco per renderle felci.

Alla porta, un prigioniero faceva da segretario. Ricordo la sua gioia e fierezza quando gli diedi una cartelletta e una penna con il suo nome “Segretario Willy”.